L’estate purtroppo non porta quiete e concentrazione, al governo Letta. Divampano le polemiche giudiziarie per i processi di Berlusconi, e la corda tra Td e Pdl si tende a ogni nuovo sviluppo. Nel Pd il confronto interno è aspro, e investe sia la cooperazione nella maggioranza con i seguaci di Berlusconi, sia i dossier di governo. Grillo è pronto ogni giorno ad approfittarne, incalza il Pd da sinistra puntando al suo elettorato. A tutto ciò si aggiungono gravi passi falsi come l’espulsione di moglie e figlia del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov, provvedimento precipitosamente messo in atto dagli apparati di sicurezza italiana e ora annullato, senza che sia chiaro chi e come abbia autorizzato questo incredibile favore al regime di un dittatore, ricco di risorse energetiche quanto sprovvisto di credenziali democratiche. Finirà in un’epurazione della Polizia quando dovrebbero saltare teste politiche. E’ penosa, la figura di un governo che a chiacchiere lancia iniziative per attirare capitali stranieri in Italia – a chiacchiere, perché per farlo davvero bisogna abbassare le tasse, abbattere la burocrazia e riformare la giustizia, non insediare tavoli agenzie – ma poi in realtà fa solo favori a satrapi che hanno canali diretti con la servizievole alta burocrazia italiana dei servizi e apparati di sicurezza.
E’ un quadro convulso che rischia ogni giorno di deconcentrare il governo da quella che è la vera prima grande emergenza: quella economica. Più che di larghe intese, a 75 giorni dalla sua nascita, sull’economia il governo Letta rischia di diventare un governo delle lunghe attese. Slittamenti di decisioni, IVA, IMU, costo del lavoro, privatizzazioni, la linea sin qui prevalsa è quella di una dichiarata grande prudenza, giustificata dai riflettori puntatici contro da Europa e mercati, ma che ormai deve cedere il passo a una stagione diversa.
C’è il modo di farlo. Proprio la politica economica e finanziaria ha un punto di forza, in questo governo. Per la sua autorevolezza maturata in decenni alla Banca d’Italia Fabrizio Saccomanni, il ministro dell’Economia, è per definizione oltre che per natura estraneo al conflitto tra Pd e Pdl. E’ personalmente forte del sostegno diretto del Capo dello Stato, gode di un rapporto senza intermediari con il presidente della BCE, Mario Draghi. A poche settimane ormai dalla Legge di stabilità, che dovrà compiere scelte sin qui rinviate, è venuto il tempo di giocare sino in fondo la carta di scelte energiche e coraggiose.
Se alle prime uscite del ministro i partiti sono stati molto decisi nel ricordargli che la stagione dei tecnici è finita, la cosa peggiore sarebbe accettare una sorta di ruolo dimidiato. Al contrario l’Economia deve farsi sentire, a costo di mettere alla corda agli occhi degli italiani i miopi calcoli dei partiti. Convinti di questo, un po’ inusualmente forse, ci rivolgiamo direttamente al ministro.
Saccomanni, insieme al nuovo Ragioniere generale dello Stato Daniele Franco anch’egli proveniente da via Nazionale, conosce bene quale sia il diverso impatto sul prodotto nazionale di un intervento piuttosto che di un altro. In un’economia tanto prostrata da strage di impresa, lavoro e reddito come quella italiana, le priorità sono quelle che producono un maggior effetto moltiplicatore, non la convenienza dei partiti.
Se si considera l’agenda del governo da questo punto di vista, il pagamento dei debiti della PA alle imprese è l’arma ad effetto più immediato, per mutare in meglio liquidità e aspettative del mercato. Ma sta all’Economia comprendere che le procedure sin qui avviate per tentare di pagare 20 miliardi entro quest’anno si mostrano ancora troppo farraginose. Le imprese non capiscono perché non si segue quanto per esempio proposto dal presidente di Cassa Depositi e Prestiti, Bassanini, che consentirebbe il pagamento in tre trimestri di 70-90 miliardi, sulla scorta di quanto la Spagna ha fatto coi suoi 32 miliardi di arretrati.
La Cgia di Mestre ha stimato che un 30% delle migliaia di chiusure d’impresa avvenga proprio perché lo Stato non paga. Ma a questo si aggiunge che gran parte delle chiusure aggiuntive avviene poi perché lo Stato chiede troppo, sommando IRAP, IRES, contributi e quant’altro. La Legge di stabilità è chiamata a indicare una scelta: una nuova programmazione pluriennale di tagli di spesa non recessivi, da portare a copertura di una discesa effettiva nel tempo della pressione fiscale su impresa e lavoro. Dalle tax expenditures al rapporto Giavazzi, dalle forniture sanitarie al costo standard esteso in tutta la PA, occorre un percorso alternativo all’aumento di altri 99 miliardi di entrate pubbliche tra 2014 e 2017 indicato dalla nota aggiuntiva al DEF dello scorso aprile, precedente all’attuale governo.
Occorre poi pensare a una terza priorità: l’abbattimento del debito pubblico. Il 2015 si avvicina, ed è nell’orizzonte di vita dell’attuale governo. Ma nel 2015 entra in vigore il fiscal compact, e ogni anno il governo dovrà garantire 45-50 miliardi di abbattimento del debito in pareggio strutturale di bilancio. Pensare di farlo per via di avanzi primari di 5-6 punti di Pil l’anno, prostrata com’è l’economia italiana, appare impensabile, a meno di una recessione ancor più dura. Quindi vanno indicate vie straordinarie: le privatizzazioni che sin qui hanno languito, e di cui restiamo convinti in maniera assoluta contro l’opinione della burocrazia del Tesoro. E se non saranno le privatizzazioni, allora a Saccomanni tocca indicare una delle diverse manovre straordinarie di riduzione avanzate da più parti in questi ultimi due anni. Molte di loro sono spericolate ai nostri occhi, e lambiscono o mascherano l’intervento che più di tutti occorre evitare,cioè una o più maxi patrimoniali coattive su famiglie e imprese.
Ci fermiamo qui. Ci rivolgiamo al ministro per sollecitargli risposte, a nome degli italiani. Certi come siamo che egli ricordi bene la parabola di Jacques Necker. Chiamato alle Finanze tra 1776 e 1781 da Luigi XVI, le sue riforme di efficienza ed equilibrio del bilancio furono avversate e diluite, dalla Corte come dai Parlamenti locali. Quando Luigi XVI lo richiamò in servizio, una prima volta nel 1788 e di nuovo all’indomani della presa della Bastiglia, era ormai troppo tardi. Ma fu il primo a fare un resoconto pubblico al Re dei veri guai dei conti pubblici francesi, nel 1781. Aver detto per tempo che i problemi erano seri e i rimedi dovevano essere energici, vale a Necker ancor oggi la stima che ai più dei suoi colleghi nella storia è negata: troppo timorosi, davanti a un toro, di prenderlo per le corna.
Di Oscar Giannino su Leoniblog